16 novembre ore 10 e 30, Firenze
Sono sulla Freccia Rossa 9568. Il treno è semi vuoto. Dal finestrino scorgo un cielo troppo chiaro per essere novembre. Su un piccolo televisore posto in alto vedo scorrere le immagini della storia del treno. Nel 1839, il 3 di ottobre, la ferrovia faceva la sua apparizione in Italia, con l'inaugurazione della famosa Napoli-Portici; in quello stesso anno era ufficialmente presentata all'Accademia di Francia un'invenzione che avrebbe fatto altrettanta strada: la fotografia di Daguerre. Non sapevo che il mondo della fotografia e della ferrovia si fossero intersecati in modo così preciso. Penso allora a Domenico e alla sua passione per questo nuovo strumento che riuscì a riprodurre il mondo circostante in modo del tutto nuovo.
Alle undici e quindici arrivo alla stazione di Bologna. Dopo aver percorso un lungo sottopasso sbuco al binario n.8. Qui la Freccia Bianca 9807 delle undici e quarantasette che da Torino arriva a Lecce, mi porterà a Bari. Il viaggio sarà lungo, faticoso. Devo armarmi di molta pazienza. Il ‘mezzo’ come lo chiamano i ferrovieri, non assomiglia affatto alla Freccia Rossa. Lo scompartimento è più stretto, le carrozze hanno un'aria vecchia, obsoleta e il convoglio fa un rumore bestiale sferragliando sulle rotaie. Anche i passeggeri sono diversi. Persone che tornano a casa, studenti, lavoratori del sud.In breve arrivo a Rimini dove, da piccola, ho trascorso diverse estati. I miei compagni erano bambini tedeschi. Non ci capivamo affatto ma andavamo perfettamente d'accordo.Ripartiamo. Interi paesi si assiepano attorno al treno. Improvvisamente scorgo il mare. La linea ferroviaria lo costeggia a tal punto che sembra toccarlo. Qui il panorama è lo stesso per chilometri: spiaggia, case, pineta retrostante. L'Adriatico è una grande piscina in cui è impossibile affogare, l'acqua non sale mai diceva sempre mio padre che ricordava il mare della Puglia.
Nonna Maria visse in quella regione dal 1936 al 1964. Proveniva da Parma, una città in cui le donne erano libere. A Bari scoprì la parola ‘maschilismo’, poi la vedovanza, la guerra e infine la povertà. Ad Ancona la stazione è adiacente al porto. Su alcuni binari vedo dei container. La vegetazione è cambiata. Lungo i binari vi sono delle palme. Il treno imbuca una galleria che sembra non finire mai. Scorgo la mia immagine riflessa nel finestrino: una signora di mezza età che assomiglia a mia madre.
Il paesaggio è sempre monotono. Soliti paesi, solito mare. Mi sono chiesta più volte se Ugo prima di morire avesse visto il mare. Non vi è alcuna prova che lo dimostri ma neanche nulla che provi il contrario. Domenico e Amalia avevano una casa a Rapallo. Lì trascorsero tutta la loro vecchiaia. L’assurdo paradosso di un uomo la cui famiglia amava il mare ma che morirà sepolto fra le montagne.
Continuo a guardare dal finestrino. Una barriera artificiale di scogli divide la spiaggia dalla ferrovia.
La mente vaga lontana. Grazie a Ugo ho scoperto che il nome Elda fu dato a mia madre perché lo portava una figlia di Bianca, sorella di Domenico. Aldo, probabilmente, ha preso il suo nome da lei. Maria, mia nonna, voleva soltanto due figli, Guido (nato esattamente un anno dopo Aldo), è stato un incidente di percorso. I due fratelli sono nati a Siena terra da cui traggono solo il luogo di nascita. Entrambi si sentono pugliesi, regione dove sono vissuti a partire dal 1936 e in cui ancora risiedono. Il padre, Fiorello Marangio, era di Mesagne. La madre, Maria, figlia del centro Italia, nata e cresciuta fra Umbria e basso Lazio, non si è mai sentita meridionale e ha trasmesso questo senso di sradicamento alla figlia Elda.
A Pescara, il mare è lontano dalla stazione. Qui ha fatto l'università Marika, una delle figlie di Aldo, che, tuttavia, non si è mai laureata. Aldo ha due figli maschi e una femmina. Marcello è laureato in informatica. Marco fa invece il grafico pubblicitario lo stesso mestiere del padre. I miei zii sono nonni. Conosco i nipoti di Guido ma non quelli di Aldo. Spero di incontrarli in quest'occasione. Non ho detto a Guido che venivo a Bari. Non ci sarebbe stato il tempo, il modo. A Termoli la gente parla con quello strano accento che mi ricorda mio padre. Il cielo è scuro, grigio, tira vento. Potrebbe piovere. Sarebbe bello vedere un temporale sul mare.Ripartiamo. Piove ma l'augurato temporale non c'è. Mi viene un momento di sconforto. In tutto il giorno nessuno mi ha cercata. Se ora dovessi scendere potrei scomparire. La mia ossessione per Ugo mi sta portando lontano da casa. In pochi capiscono quello che sto facendo. Tutti credono sia un po' pazza. Ricordo mamma che prendeva l'Album di Zio Ugo e lo portava in salotto per mostrarlo agli ospiti. Tutti dicevano “Ohhhhh” ma poi si fermavano lì. Suona un cellulare, spero che sia il mio ma non è così. Comincio a essere stanca sono ore che scrivo. Chissà se troverò quello che cerco. Ma cosa sto cercando?
Sono le sedici e trenta. Sto arrivando a Foggia. Qui mio padre, mia madre, mia sorella sono vissuti prima che io nascessi. Qui nonna Maria fu operata per un tumore al seno all'ospedale di Padre Pio, Casa Sollievo della sofferenza a San Giovanni Rotondo. Padre Pio era un uomo eccezionale ha sempre detto mamma. Tutti i più grandi chirurghi del mondo venivano a lavorare gratuitamente nella clinica che lui aveva voluto sopra ogni cosa. In Ospedale, lo vedevano in più luoghi contemporaneamente. A mio padre disse che sarebbe stato trasferito a Firenze. Nessuno lo sapeva. La mamma era molto devota. Teneva sul comò una sua fotografia assieme a quella dei parenti più stretti.
Mi sono data un po' di fard e del rossetto anche se il mio volto è veramente stanco. Mio zio ha ottanta anni e non gradisce molto la compagnia delle altre persone. Per Ugo ha fatto la differenza. Per Ugo tutti fanno la differenza. Vedo dal finestrino i grandi ulivi pugliesi da cui si produce quell'olio che a noi toscani fa pizzicare la lingua. L'aria è nebbiosa grigia. Pioviscola. Mi sono persa il mare. Non lo vedo più. In questo tratto la ferrovia viaggia lontano dalla costa.
Sono le cinque. Il treno è in ritardo. L'Italia è lunga, per questo non vado mai a Bari diceva sempre la mamma. In realtà non gradiva tornare nella città in cui aveva dovuto rinunciare a fare la giornalista, l'assistente parlamentare, il professore universitario tutti lavori per i quali, almeno all'inizio, dovevi stare a lungo senza guadagnare un lusso che lei non si poteva permettere.
Arrivo a Bari alle diciotto e trenta con oltre un’ora di ritardo. Piove, fa caldo. Prendo un taxi. La città è confusa, luminosa, piena di traffico, ricca di negozi. I pescivendoli offrono la loro mercanzia su dei pancali bianchi che si sporgono fino al centro dei marciapiedi. E' una bella città, si vede. Mi fermo a comprare un’orchidea bianca, per lasciare a Ina un mio ricordo.
Sono sotto casa di Aldo. Suono il campanello. Salgo.
Ore 19, Bari
In un magnifico salotto mi accolgono zio Aldo e zia Ina. Li abbraccio e sento il loro calore che mi circonda. Sono solo un po' più vecchi di come li ricordavo. Ina è sempre bella, morbida, minuta, il volto è dolcissimo. Aldo ha i capelli bianchi e un piccolo pizzetto che gli spunta dal mento. Si muove per casa con la tipica andatura di chi “non deve andare da nessuna parte” e un po' lo invidio. Scherza e fa le sue solite battute in dialetto che capisco solo in parte. Mi guardo intorno. I mobili della sala da pranzo, in tipico stile liberty, sono gli stessi che Amalia aveva a Rapallo e che ricordo di aver visto in diverse fotografie. In uno di questi è stato riposto per anni sia il libro di Ugo che la famosa cassetta che fra poco vedrò. Ci sediamo in cucina, parliamo di tante cose: il nostro passato, i figli, i nipoti, il lavoro, l'Italia, i Marangio, i Marcangeli, Ugo. Mostro loro sul computer il contenuto tutto il lavoro che sto facendo e, come sempre, mi accorgo che anche Aldo e Ina sanno poco di questo ragazzo e della famiglia a cui è appartenuto. A un tratto Ina si allontana. La vedo aprire la credenza. Tiene fra le mani una vecchia scatola di legno. Ne sollevo il coperchio con molto timore w vedo che è zeppa di roba. Il cuore mi si stringe. Era la casa ambulante dove Ugo portava i suoi ricordi.
Ma le sorprese non sono finite e Ina mi porta una grossa scatola di cartone contenente centinaia di lastre in vetro. Si tratta dei negativi di tutte le foto scattate da Domenico. Non sapevo dell'esistenza di questo tesoro e pare che nessuno fino ad ora ci abbia mai messo le mani. Mi metto a guardarle in contro luce. Le foto del libro di Zio Ugo e molte altre che non conosco mi scorrono fra le dita. Scatti singoli in un mare in movimento. Aldo e Ina restano stupiti. Conosco molte cose sulla vita della famiglia Marcangeli e i passaggi che mi mancavano li vedo ora su queste lastre. Ecco i protagonisti della mia storia: Ugo, Amalia, Domenico, Maria, i cugini di Sezze, oltre ai loro amici più cari. Ci sono le foto di tanti luoghi: Sezze, Suso (la campagna del nonno Augusto, il padre di Domenico) ma anche Roma, Viterbo, Amelia, Pavia. Udine, Fiume. Chiedo timidamente se posso portarmi qualche lastra a casa, un prestito. Ina mi dice di sì. Scegliere è molto difficile. Ne prendo alcune a caso anche perché sono riposte in astucci che non posso dividere. Le lastre sono tutte polverose, ho le mani e le unghie nere. Sembrano in buone condizioni, perlomeno la maggior parte. Arrivata a casa le farò vedere a un fotografo. Ho in mano un patrimonio enorme. Domenico era un grande fotografo, un vero appassionato. Aldo mi dice che al loro studio fotografico c'era un ingranditore di legno che era appartenuto a suo nonno, purtroppo oggi non esiste più. E le macchine fotografiche? Aldo non mi sa rispondere.
Alle ventuno e trenta Ina mi fa uscire da quel mondo di immagini per andare a cena. Lascio tutto lì su quello stesso tavolo dove hanno mangiato Amalia, Domenico, Fiorello, Maria.
La cena è tutta pugliese. Pasta con le fave, come piaceva a mio padre e per secondo la mozzarella con contorno di caponata e una ricotta di capra ancora calda che mangio in dose industriale. Il pane è saporito, molto diverso da quello toscano che invece è decisamente “sciapo”.A cena Aldo si mette a parlare e io ascolto in silenzio.
“Il giorno che tuo nonno Fiorello morì andammo all'ospedale militare. Nostro padre era irriconoscibile. Di una magrezza impressionante. Aveva le mani trasparenti. La luce ci filtrava attraverso. Non capivo o forse non volevo capire. Per noi bambini la morte non esisteva.
La sera mia madre si presentò a casa con delle borse piene di indumenti. Nostro padre era morto ma non ci disse nulla. Solo Elda lo sapeva e quella notte scappò sul terrazzo a piangere per non farsi sentire da noi più piccoli. Lei e il padre erano inseparabili. Nonno Fiorello non aveva potuto studiare ed era molto orgoglioso di quella figlia bravissima a scuola. La sera le risentiva i compiti. In realtà era lei a insegnargli. Lui ascoltava.” Noto che Aldo quando parla di cose importanti non usa il dialetto. “Dopo la morte di Fiorello, fu Elda a mettersi a lavorare. Se non l'avesse fatto saremmo morti di fame. La misera pensione del nonno non ci avrebbe certo sfamato”. Mia madre raccontava sempre che nonna Maria era una persona splendida ma non sapeva fare niente e poi con tre figli. “Tua madre conosceva bene il tedesco, l’inglese e, dopo la scuola, il pomeriggio andava a lavorare presso una ditta che importava prodotti dalla Germania.” A questo punto Aldo si ferma e si versa un bicchiere di birra. “A Bari ci chiamavano i figli della signora. Nostra madre era una bella donna, elegante. Ci ha insegnato le buone maniere, il rispetto per gli altri, l’educazione come se fossimo una vera famiglia di signori. Di risposarsi non ne ha mai voluto sapere. Era come tradire il marito e poi, con una figlia adolescente, mettersi in casa un uomo non era proprio il caso.”
Suona il telefono è Marco, mio cugino. Ha confermato che domani verrà a pranzo. Sono contenta.
“Elda, una gran testa ma anche una gran rompi coglioni” So bene a cosa si riferisca. Ma so che la mamma mi manca terribilmente.
“Nonna Maria aveva un ammiratore – continua Aldo – veniva a casa la sera, si sedeva su una sedia e non diceva nulla. Durante la guerra avevamo sempre fame e una volta ci propose di andare a casa sua, in campagna. Fu un giorno che non dimenticherò mai. Mangiammo la carne vera. Non quella di cavallo che comprava sempre tua nonna.” Aldo è stanco. Lo scorgo dagli occhi. I ricordi cominciano a pesare.
A questo punto è Ina a iniziare a parlare. “Nonna Maria si è ammalata nel 1960. Dopo aver abitato un anno con tua madre tornò a stare da sola. Ma poi i vicini ci avvertirono che la notte urlava dai dolori. Allora venne a stare da noi. Aveva sempre sete. Il male la divorava dentro. “Quando Guido si è sposato volle andare al matrimonio. Era piena di morfina e così pallida che pareva già morta. Indossava un vestito azzurro che le cadeva sulle spalle e un cappello grigio che nascondeva i radi capelli bianchi. Fu solo in grado di sorridere senza nessuna espressione. La sera, la rimettemmo a letto in tempo solo per farle una nuova iniezione. Il giorno successivo non rammentava neanche dove fosse stata. Quando è morta le ho voluto cucire io stessa un vestito nuovo. Doveva essere elegante anche quel giorno.”Aldo non ce la fa si allontana. Non riesco a dire nulla. Non c'è nulla da dire. E' tardi sono esausta. Saluto Ina e mi ritiro nella mia stanza, cercando di fare meno rumore possibile.
ore 22 e 30
Sono a letto. Dovrei dormire ma non ci riesco. Penso ai miei Zii. Ina, sorella di un compagno di scuola di Aldo, era una bambina quando Aldo la vide la prima volta. “Come sei carina con quelle treccine quando sei grande ti sposo” e aveva mantenuto la promessa. Fra loro ci corrono otto anni. Hanno tre figli. I loro nomi iniziano tutti con la MA. Anche il loro cognome è MArangio e anche la nonna faceva MArcangeli. Sono nonni di due splendidi bambini di quattro e sette anni figli di Marcello. La cucina è tappezzata dalle loro foto. Domani li conoscerò. Sulla scrivania della mia stanza c'è la cassetta di Ugo. Dovremmo aprirla domani ma non resisto. Mi alzo e la porto accanto a me sul letto. E' piuttosto piccola. Il coperchio è chiuso da un gancio di metallo. La stanza è in penombra e decido di ruotare la lampada del comodino verso la cassetta. La apro e nel farlo mi accorgo che il coperchio è rotto in tre parti, tre lunghe fenditure che l'hanno segnata per sempre. Dentro trovo un sacco di cose tutte ammassate l'una sull'altra. Prendo in mano il portafoglio di Ugo. E' di pelle marrone, con diversi scomparti. Ha l’aria consumata, vissuta. Sulla parte davanti è lavorato con dei disegni damascati. E’ un oggetto raffinato. Lo apro. All'interno vi sono diverse fotografie. Una è di due ragazze. Indossano un vestito identico. Un abito scuro tagliato in vita, con un colletto a punta che segna loro i fianchi ancora acerbi. Il vestito arriva a entrambe alla caviglia. L'unica differenza fra le due è data dalle scarpe e le calze: una le ha chiare con un nastro di raso bianco. L’altra nere con tre laccetti a bottoncino sulla parte davanti. La foto è scattata nel giardino della casa di Amelia, la riconosco ci sono stata la scorsa estate. La posa è come sempre molto impostata. Una è seduta. L'altra, alle sue spalle, allunga una mano per sfiorare un grappolo d'uva che quella davanti tiene fra due dita. Sul retro sono riportati i nomi: Iris e Luigina. Il negativo di questa foto è fra le lastre che ho visto nel pomeriggio quindi è stata scattata da Domenico. Chissà chi sono. Hanno l'aria giovane, sono carine soprattutto quella davanti con gli occhi chiarissimi e i capelli corti, biondi. Sorridono appena in modo dolce. E' una foto che risale sicuramente all’agosto del 1917. C’è una foto di Ugo vestito da bersagliere. E’ scattata nello stesso luogo, nel medesimo giorno. Forse Iris e Luigina sapendo che lui sta per partire per la scuola militare, sono passate a salutarlo. Il padre, per ricordare la visita, le ha volute immortalare. Il figlio le ha portate con sé per sempre.
C'è ne è poi un'altra con quattro ragazze. In campagna. Sullo sfondo, in lontananza, Amelia. Dietro c'è scritto 1916, gita con Elena e Rosa. Ho già visto queste ragazze, ci sono anche in due foto riportate nell'album. In una di queste Ugo è arrampicato su un ulivo. Ai piedi, le due ragazze presenti nella fotografia che Ugo portava con sé. Ora so che si chiamano Rosa e Elena. Sento le loro risa, l'odore dell'erba, il sole caldo di luglio. La guerra è lontana. La campagna amerina accompagna le passeggiate di questi giovani spensierati. C'è poi la foto di una ragazza molto giovane e carina, firmata Lilla Pagliacci. Lo sguardo è ammiccante. Indossa una collana di ambra, orecchini di perle, un delizioso vestito di pizzo e sul cuore ha una rosa che il fotografo ha dipinto di rosso sangue. Questa è di sicuro la fidanzatina rammentata nella lettera di condoglianze dall'amico Avv. Laureti di Spoleto che viveva nella casa di fronte a quella dove Ugo studiava.
Infine un’altra fotografia. Ugo è con la sorella indossa la divisa militare e ha quella strana peluria sul labbro superiore che lo fa apparire più grande. Maria ha invece un vestito da donna che non le dona. Una sciarpa nera di lana sulle spalle con al fondo delle nappe e dei fiocchi. Un abito bianco, tagliato in vita con la gonna appena drappeggiata Le scarpe chiare hanno un fiocco di raso bianco. E’ scattata in uno studio fotografico in occasione dell’ultima licenza, nel gennaio del 1918.
Le foto che Ugo teneva nel portafoglio sono sciupate. E’ come se fossero state a lungo in tasca. Hanno diverse venature lungo il bordo e la parte che sporge dal portafoglio è sbiadita. Debbo fermarmi l'emozione è troppa. Sono sconcertata all'idea di guardare le stesse immagini che osservava Ugo. Lo vedo disteso nella branda. Sono le cinque del mattino, ha tuonato e lampeggiato tutta la notte. Il giovane sottotenente non è riuscito a dormire. E' come se Dio avesse riversato tutta la sua furia in quel cielo che gli appartiene, bagnando le bocche dei cannoni, degli obici, delle trincee nascoste nella terra. Ugo ha accanto a sé una piccola candela. Prende dal portafoglio le foto e le osserva una per una. E' sul fronte da solo un mese ma ha già nostalgia di casa. Ha freddo, si tira la coperta sulle spalle. Si guarda intorno. I compagni dormono. Qualcuno si lamenta. Lungo il muro del rifugio c'è una lunga crepa che arriva fino al soffitto. C'è odore di umido. Lo sguardo torna alle foto che ha in mano. Dal letto si guarda le mani. Ha le unghie frastagliate, rotte. Assomigliano ai monti che lo circondano. Ha i contorni delle dita sbiancate contro il riflesso della candela che tiene accanto a sé. Il mio cuore ha un sobbalzo, mi accorgo di essere a Bari. Ho in mano le foto di Ugo che con delicatezza rimetto a posto.Continuo a frugare. Trovo tre santini, la reliquia di un santo con un cuore di stoffa, tre medagliette votive, gli unici richiami religiosi che abbia mai trovato nella vita di Ugo. Sono oggetti sicuramente inviati dalla madre.Vedo poi un calendarietto tascabile della Rimmel a colori composto da varie pagine. In copertina la scritta “L'union fait la force” e sullo sfondo le bandiere degli stati a fianco dell'Unione. All'interno i disegni dei distintivi, i simboli delle mostrine, e delle brigate di fanteria dell'esercito italiano. Prendo poi una piccola scatola rotonda di cartone. All’interno vi sono tre bottoni e un porta aghi. E’ una scatola vuota di chinino. Ecco la penna stilografica con cui Ugo scrisse dal fronte. E’ conservata dentro il suo astuccio di cartone blu. E’ una Stewart FP, una penna inglese. Dentro la scatola c’è dell'inchiostro rappreso. C’è poi il portasigarette in cuoio marrone in dotazione nell'esercito. Sulla parte davanti a sinistra un foro che lo percorre fino al lato posteriore. Vicino c'è un gruppetto di fogli a righe anch'essi bucati. I bordi sono sfrangiati e il foglio più esterno riporta ancora qualche leggera sbavatura color ruggine, è sangue. Ancora una busta da lettera verde ripiegata in quattro anch'essa forata non si capisce se da una pallottola o dall'usura del tempo.
In un involto di carta velina ormai ingiallito dal tempo trovo i fregi, le mostrine e le stellette di Ugo e, in un altro, cinque sfere di piombo. So di cosa si tratta. E' l'interno di un temibile shrapnel un tipo di proiettile per artiglieria che si sparava dai cannoni. Ugo, appena uscito dalla trincea, venne investito dalle micidiali sfere e colpito in più parti del corpo: alla testa, al torace. Ma ci sono ancora tante cose: una sola pezza da piede, il fez con il fiocco dei bersaglieri che Ugo indossa in una fotografia scattata nel giardino di Amelia, la fascia azzurra da ufficiale, un block notes con fogli bianchi, un coltellino con la lama arrugginita, delle bellissime cartoline da spedire a casa. Infine una lastra fortemente ossidata come se fosse stata a lungo all’aria aperta. Sopra riporta la seguente scritta: “Marcangeli Ugo, Sottotenente 59 Fanteria, Morto il 2 luglio 1918”. Improvvisamente ho un ricordo. Apro il computer e guardo la foto della tomba di Ugo a Valpiana, il primo cimitero militare in cui Ugo venne seppellito. Appoggiata in cima vedo una targhetta. E' la stessa che ho in mano. Un lungo brivido mi scorre lungo la schiena. Deve averla prelevata Domenico quando andò sulla tomba. Mi perdo nella vita quotidiana di un giovane soldato.
E' molto tardi. Rimetto tutto a posto. Mi guardo le mani. E’ probabile che vi siano tracce di Ugo e della sua breve vita. Provo a immaginare cosa deve aver provato Domenico nel momento in cui gli venne consegnata la cassetta. “…Questi la prende senza dire una parola e tornato a casa la apre assieme alla moglie e alla figlia per cercare ogni più piccolo ricordo, ogni più piccolo segno che renda Ugo ancora presente e vivo fra loro…”.
17 novembre ore 9 Bari
Mi alzo. In cucina trovo Aldo e iniziamo a parlare. “Dormo da solo. Tua zia russa come un treno. Sembra una pentola che bolle. Poi non la posso toccare che si sveglia. Allora da sempre ho la mia stanza. E poi…tua zia bastava guardarla e…dopo tre figli poteva anche bastare.” Non sapevo che mio zio fosse così ‘cinico’.
“E in campeggio, d’estate come fate?”
“Come non lo sai? Io ho due roulotte. Gli amici mi prendono in giro ma la notte io voglio dormire e con tua zia non si dorme.” Aldo fa ridere tutti, penso guardando il suo volto rugoso che racchiude tanta simpatia. Ha sempre avuto un buon carattere. Dicono assomigliasse a Nonna Maria.
“Vuoi sapere perché la ditta Marangio è andato a puttane?” Mi sento a disagio, Aldo comincia a parlare un po' in italiano un po' in dialetto.
Guardo fuori. Ci sono dei palazzoni che non ricordavo. La casa doveva essere in aperta campagna. Sulla sinistra vedo un edificio grigio, è una scuola. In Italia la cultura è sinonimo di tristezza. Ricordo lo studio Grafico Marangio. Un posto di lusso, bello. Mia madre ne andava orgogliosa. Sapere che non esiste più mi è sempre parso strano. Mi appoggio al davanzale. I’imbarazzo aumenta. Aldo fuma un sigaro che emana un cattivo odore.
“Lo vedi questo campo qui sotto? E' stata la nostra fortuna. Il proprietario è in lite col Comune. Per questo qui davanti non hanno mai costruito. Peccato che sia il ‘cacatoio’ di tutti i cani di Bari”, mi dice schifato. Vorrei tanto un caffè ma Aldo ha voglia di chiacchierare. “Io vivo qui da quarant’anni. Quest'appartamento è il frutto del lavoro di tutta una vita. Io non sono ricco. Non sono mai stato capace di fare soldi. “Nostro padre ci insegnò che l’onestà era la cosa più importante. Una sera andò a casa di un Generale, pezzo grosso della Milizia, certo F. M.. Dopo cena lo invitarono a unirsi a un tavolo di carte. Giocavano a soldi cosa che era assolutamente vietata ai militari di carriera, rischiavano il posto. Mio padre disse alla moglie prendi la pelliccia che ce ne andiamo. Il giorno dopo si recò dal Colonnello, voleva denunciarlo. Ma cosa vuol fare Tenente gli disse il Colonnello, quell’uomo ci rovina a tutti e due. Non solo è un Generale ma è anche un Federale della Milizia. Marangio, vada a casa e ci dorma su. La prego. Mio padre dopo qualche tempo partì per Siena dove l’avrebbero operato di tumore alla vescica e la cosa si chiuse lì. Terminata la guerra gli Americani cercarono di prendere il Generale M. ma era scappato in campagna. Si salvò. I farabutti si salvano sempre.”
Sentiamo un trambusto alle nostre spalle. Ina si è svegliata e sta armeggiando in cucina. Il caffè è in arrivo. Dopo aver consumato un’allegra colazione, torno al mio lavoro dei negativi. Vedo tante di quelle foto che quasi provo la nausea. Verso le undici suona il campanello è mio cugino. Marco è un bel ragazzo di oltre quarant'anni. E' dolce come la madre e molto disponibile. Anche lui, come il padre, fa il grafico pubblicitario. E' venuto per fotografare il contenuto della cassetta. Un “lavorone” come diciamo in Toscana, lui ride. La svuotiamo dopo aver messo gli oggetti che contiene sul tavolo. Ina è in ansia, forse le stiamo profanando tutto. La ringrazio. Si sta sforzando di comprendere. Finiamo di fotografare e, davanti a un bel pranzo tutto a base di pesce, parlo loro del Museo di Rovereto, del lavoro che ho fatto sull’album, del libro che sta scrivendo Paolo Ciampi. Marco è un appassionato di moto. Lo invito nel Mugello, la terra di Giotto del Beato Angelico ma anche dell’Autodromo. Dopo pranzo ci rimettiamo al lavoro. Verso le diciassette abbiamo finito. Ormai anche volendo, non abbiamo più luce. Sono stanchissima, affaticata vorrei andare un po’ a riposare ma questo nuovo vecchio cugino vuole stare con me. Sei un Vulcano mi dice come tua madre. Sorrido. Si è fatto tardi deve andare lo aspetta un cliente, tornerà per cena. Mi saluta e se ne va.
Suona il campanello. Sono loro gli adorati nipotini. Marvin e Anita di sette e quattro anni. Come tutti i bambini che si rispettino non camminano saltellano e sembrano sospesi per aria. Li guardo. Sono bellissimi. La fotocopia sputata di Ugo e Maria. Non tanto nel fisico quanto nell'indole nel modo di fare. Vivaci, intelligenti, hanno i lineamenti dolci, ben scolpiti. Li abbraccio e li bacio dopo aver chiuso per un attimo gli occhi. Sento l'odore del borotalco, del bagno schiuma, della mia famiglia d'origine. Perdiamo un po' di tempo a farci delle foto Li riprendo mentre si buttano addosso al nonno alla nonna. Ci mettiamo in posa davanti al bel mobile della sala. “Ma tu chi sei?” mi chiede Anita. Una nuova zia le rispondo ma lei non sembra soddisfatta.
Decido allora di prendere il computer per far loro vedere le foto dei miei gatti. “Hai nove gatti?” mi chiede Anita come se fossi una specie di strega buona “E dove li tieni?”
“I gatti non si tengono – rispondo – i gatti vanno dove vogliono.
"Aldo si avvicina.
“Lo sapete bambini che il nonno ha avuto tanti gatti?”
“Nonno davvero?”, gli risponde stupito Marvin.
“Il più famoso si chiamava Mimì, un gatto bianco, grigio e un po' nero vissuto molto a lungo, qui a Bari.” Il mitico Mimì che aspettava nonna Maria in cima alle scale miagolando finché lei non rientrava a casa.
“Pensa Anita – continua Aldo – Mimì era un gatto dall’intelligenza fuori dal comune. Faceva la pipì dentro al water, riusciva ad aprire le porte con la zampetta. Ma era un ladro, rubava ogni cosa.” I suoi occhi ormai sono immersi dentro quelli del nonno.
“Mimì un’estate cadde dalla finestra e si spezzò la coda. Soldi per il veterinario non ce ne erano e io per evitargli la cancrena…"
“Cos’è la cancrena nonno?”
“Marvin pensa al marcio delle mele. Se non lo togli in tempo bisogna buttare via tutta la mela”, interviene Ina da buona maestra.
“Ho capito – dice Marvin – hanno amputato una gamba a un corridore. Lo hanno detto alla tele.” Sono esterrefatta.
“Insomma bambini. Per evitare che morisse fummo costretti ad amputargli metà della coda. La cucina divenne una sala operatoria con coltelli, forbici, fasce di cotone acqua bollente e disinfettante. Non solo. Tutta la famiglia venne mobilitata. Il povero animale miagolava come un ossesso, e per tenerlo fermo, ci vollero tre persone.”
“Nonno, Mimì poi è morto?”
“No, Anita è vissuto tanti anni solo che credevamo fosse diventato cieco.”
“Perché nonno dici che ‘credevamo fosse diventato cieco’. Non era così?” Questi bambini sono troppo intelligenti, penso.
“Ascoltatemi. Durante la guerra ci regalarono un galletto. Lo chiamammo Cocò. Diventò di casa ma la fame era tanta e quando venne il momento gli tirammo il collo.”
“Nonno, nonno come si fa a tirare il collo a un gallo”, chiede Anita con tono stupito.
“Si tira. Si torce e quello si spezza, crack”, dice Marvin con fare esperto.
“E tu come lo sai, Marvin?”, gli chiede Anita mentre lo guarda con aria di venerazione.
“Zitti bambini, ascoltatemi – continua Aldo – Per cena la pentola con Cocò dentro bolliva in cucina mentre Mimì sonnecchiava sul bordo del lavandino. Tutti erano tranquilli.”
“E’ vero – dice Marvin – Mimì era cieco.”
“Ma Mimì era un ladro e un ladro di professione non si smentisce mai. A un tratto saltò sul fornello e con l'unghia arpionò Cocò trascinandolo con sé fra le urla di tutti.” Anita e Marvin osservano Aldo senza respirare. Li guardo negli occhi e vedo riflesso nelle loro pupille lo sguardo atterrito della nonna Maria che corre per la cucina inseguendo il suo adorato Mimì. Anita appoggia la mano mollemente sul petto del nonno. Sbadiglia è stanca. Aldo continua.
“Mimì morì vecchissimo. Alla fine completamente cieco gironzolava per casa seguendo un percorso ben preciso fatto di sedie, tavoli, sgabelli che nonna Maria lasciava apposta per lui. Peccato che io mi divertissi a togliergli tutto e Mimì cadesse con un tonfo sordo e cominciasse a miagolare finché nonna Maria non correva per portarlo in salvo.”
Mia madre non ha mai voluto animali. Troppi ricordi diceva, troppo dolore legato a momenti di gioia ma anche di grande sofferenza. Marvin e Anita sono intelligenti sensibili hanno un'incredibile proprietà di linguaggio. Mi piacciono i nipotini di Aldo e di Ina, sono molto “Marcangeli” , middle-class. Marvin, assomiglia a Ugo. Ha lo stesso sorriso, il medesimo taglio degli occhi.
Sono le sette. I bambini hanno fame. La nonna prepara loro la cena. Non vedevo mangiare dei bambini da soli da molti anni. Un'abitudine praticata da mia madre quando Anna era piccola. Li guardo. Mangiano di gusto, non sono schizzinosi, assaggiano volentieri sapori nuovi. Durante la cena Anita chiede alla nonna di raccontarle una storia e Ina parla loro di Paride e della bella Elena. Sorrido. Penso come siano fortunati questi bambini. Anche Ugo e Maria lo erano ma nessuno conosce il proprio futuro.
Marco è tornato. E’ l’ora della cena anche per noi adulti. Aldo e Ina provano ad accendere il televisore ma Marvin e Anita sono bambini troppo intelligenti per cadere in un tranello simile e preferiscono rincorrersi per la sala.
Arriva Marcello con la moglie Filly che sta per Filomena. Chiacchieriamo dell'Italia mentre il fratello Marco gioca con i bambini. Anita corre da me e dice “Io ballo con l'e-phone” la guardo e sorrido.
Si è fatto tardi. Nessuno vorrebbe dormire ma i bambini sul sonno hanno regole di ferro. Anita mi mostra un bellissimo cappottino e un cappello rosa che vorrei possedere io. Non riesco a non pensare a Maria e ai suoi magnifici vestiti. E' stata elegante fin da bambina, Anita è come lei.
Chissà se la storia potrà continuare attraverso questi bambini.
E' tardi. Restiamo soli io, Aldo e Ina. Dico a Ina che ha dei nipoti fuori del comune e che fare l’insegnante a simili bambini deve essere facile. “Quando ero giovane andai a fare l’insegnante a quaranta chilometri da Bari. A Modugno”, mi racconta Ina. “Mi dettero una classe di trenta ragazzini. Non capivo nulla di quello che dicevano. Avevo un tradurre simultaneo. Un altro bambino. Una stupida collega chiese a uno di loro 'Ma dove abiti che hai le scarpe tanto sporche? 'Addio Crist derdet la coppola'. Dove Cristo perse la coppola rispose.” Parliamo poi di nonna Maria. “Era una donna colta amava molto leggere. Quando conobbe il marito faceva l’università a Udine. Matematica.” Non conoscevo questo dettaglio.
“Ma a quell’epoca una donna sposata non poteva certo studiare e tutto finì nel nulla.” “Chissà come fu contenta Maria quando la figlia si laureò – le dico – Cento dieci e lode di sudore, lavoro, fatica. Ricordi Ina? Proprio quell’anno il Governo fece un decreto che permise a tutti i laureati in legge col massimo dei voti di diventare magistrati senza concorso. Peccato che occorresse un requisito fondamentale di cui mia madre era priva. Il sesso: occorreva essere maschi.”
“All’epoca per le donne non era difficile restare fuori della porta. Oggi è diverso.” Potremmo parlare ancora e ancora. Ma non si può. E’ tardi.
18 novembre ore 10 e 40
Sono sul treno che mi sta riportando a casa e pur essendo stanca, distrutta vorrei raccontare a tutti quello che ho trovato. Parlo con Sonia, l’amica che mi ha aiutato a trascrivere le lettere di Ugo, Fausta, la nuova parente di Sezze, Paolo, lo scrittore. Capisco che avrò bisogno di tempo per metabolizzare ciò che ho visto. Provo a dormire ma non ci riesco. Ho fame, sete. Addento il panino che mi ha fatto Ina. La mozzarella fresca si spappola sotto i denti.
Guardo fuori, scorgo il mare. Chissà quando lo rivedrò.
A Bari non sono mai uscita di casa. Ho vissuto due giorni rintanata con Aldo e Ina a cercare ricordi, a rivivere un passato che non esiste più. Al momento di partire piangevo, ridevo, non me ne volevo andare. Sono stata bene, benissimo. Un pezzo della mia vita è rimasta impigliata nella rete che mi ha gettato la famiglia Marangio.
Il treno sferraglia è in ritardo. Sono ormai le quindici. Un gentile ferroviere mi ha già detto che a Bologna non riuscirò a prendere la coincidenza per Firenze. Il problema in Italia non è partire ma arrivare, lo diceva sempre la mamma che ha utilizzato per anni il treno per andare a scuola. Alle sedici a quaranta arrivo a Pesaro mentre dovrei essere già a Bologna. Sono stanca debbo farmi forza anche se non è facile. Alle diciotto prendo la coincidenza per Bologna correndo in mezzo a una folla di gente. Ho la gola secca, le gambe mi tremano. Mi siedo al bar dove sorseggio il succo di frutta più caro della mia vita. Mi guardo in un finestrino, ho il volto stravolto. La stazione di Firenze mi accoglie rumorosa. La mia vita riprende. La storia di Ugo continua ma ora nel mio cuore ci sono anche loro. Aldo e Ina.
o