In questa sezione ho inserito le storie che mi sono state raccontate durante il 2015 da chi avvicinandomi ha voluto assieme a me ricordare la Grande Guerra. Non si è però trattato di mettere insieme delle testimonianze (parola impossibile da utilizzare a distanza di cento anni) ma di narrare le emozioni ancora vive che serpeggiano intorno a un evento che cambiò la vita non solo di milioni di persone ma anche dei loro familiari.
L’UOMO DAL FUOCO IN BOCCA
Racconto di Francesco nato nel 1959
Questo è il ricordo di un bambino, nitido come se lo avessi vissuto ieri, non più di mezzo secolo fa. Quando avevo quattro o cinque anni, diciamo prima di andare alle elementari, passavo le mie mattine con la nonna che, in primavera, mi faceva svegliare presto e mi portava in giro per il paese che conoscevo, si può dire, palmo a palmo. C'erano delle tappe fisse: l'edicola, il negozio di ortofrutta della Renza, il bar dell'Opelia per un chicco, per il resto si camminava salutando e scambiando due parole con chiunque s'incontrava. La nonna, nata e cresciuta in paese, conosceva tutti: dalla guardia comunale, Quirino, alle donne di qualunque età che si affrettavano a rientrare a casa cariche di borse della spesa, agli autisti di piazza che in attesa di qualche cliente lucidavano le loro grandi macchine nere. Quando si avvicinava l'ora di pranzo il nostro vagabondare si fermava e prendevamo la strada del ritorno, passando immancabilmente per il paese vecchio. Aggrappate allo sprone della fortezza di San Martino le case degradavano dal Poggio alla piazzetta di Villa Adami dove il paese, allora, si apriva alla campagna.
Dopo un centinaio di metri c'era una fila di case sulla destra, dall'altra parte un muro di sassi che allora mi appariva ciclopico. Davanti alle case c'erano sempre delle donne sedute a lavorare a maglia o all'uncinetto, ma a quell'ora erano tutte indaffarate a cucinare e dalle finestre a piano terra uscivano odori forti di stufato e di soffritto. Sulla porta allora restavano due o tre anziani, più o meno coetanei di mia nonna vestiti rigorosamente con camicia, bretelle giacchetta, panciotto con l'orologio fissato con la catena e il cappello, con la fascia di tessuto, in capo. La nonna li salutava e loro ricambiavano a volte portando due dita alla tesa. Erano, mi aveva raccontato la nonna, amici di suo marito, nonno Vittorio, che io non avevo conosciuto.
Due di loro avevano i baffi ormai bianchi e mi facevano un sacco di complimenti, ma era il terzo che mi affascinava. Non parlava quasi mai, si limitava a sorridere. Tutti e tre fumavano il toscano, ma lui lo faceva tenendo la punta accesa all'interno della bocca e tirando lunghe boccate, meno frequenti, ma più intense. Avevo chiesto diverse volte alla nonna perché quel signore fumasse il sigaro in quel modo strano, ma lei mi aveva risposto che non erano domande da fare. Se lo faceva, mi aveva detto, è segno che a lui piaceva così e a me non doveva importare. Non era una risposta soddisfacente e decisi a chiedere direttamente a lui. Una volta, prima che la nonna mi potesse fermare, presi coraggio e domandai:"Tu perché fumi così il sigaro?". La nonna mi stava facendo gli occhiacci, ma non la guardavo, aspettavo la risposta. Non so perché m'incuriosiva tanto, ma non me la volevo perdere per nulla al mondo. "Bambino" mi disse "sai ho imparato a fumare così di notte, perché altrimenti mi ammazzavano…e mi è rimasto il vizio, anche se ora potrei farne a meno." Rimasi di stucco. Perché mai uno doveva essere ammazzato di notte se fumava il sigaro? Mi sembrava una punizione esagerata…
Quando ce ne andammo lo chiesi alla nonna che, dopo la meritata ramanzina, mi raccontò che quel signore aveva fatto la Grande Guerra perché era più giovane di lei e degli altri due amici. Era coetaneo di suo fratello, bersagliere, ferito sul Col di Lana. Erano partiti assieme, ricordò, ma quest'altro aveva fatto la guerra in trincea, in fanteria.
La fanteria: "regina delle battaglie" o "carne da cannone" a seconda dei punti di vista. E di notte il conforto di un mezzo toscano poteva costare caro. La punta rossa accesa serviva da linea di mira ai cecchini austriaci che tiravano dieci centimetri sopra quella lucciola rosso brillante e ti spacciavano. Erano passati ormai quasi cinquant'anni da quelle notti nel fango, ma non glie era mai passata l'abitudine a quell'ormai inutile gesto di prudenza. Oggi penso che forse era anche un modo per ricordarsi dei suoi vent'anni, di quei giorni lontani, degli amici che non ce l'avevano fatta. E non dimenticare.
PALMIRA LA VEDOVA DI FAUSTINO
Racconto di Enrico nato nel 1951
Del nonno Faustino a casa non si parlava mai, né io ho mai chiesto nulla a mio padre o a mio nonna. Faustino Ricci, classe 1887, era un disperso della Grande Guerra, uno di quei soldati che non hanno né una tomba né un corpo su cui piangere ma che lasciano solo una lunga nebbia nella vita di una famiglia. Soldato del 35^ Reggimento di Fanteria, Brigata Pistoia, trovò la morte sul Monte Cengio l’ultima postazione italiana sull’Altipiano di Asiago. Qui verrà dichiarato disperso il 15 giugno 1916, nella fase conclusiva dell’attacco austriaco che avrebbe dovuto sfondare la pianura veneta. Dal 22 maggio al 10 giugno 1916 orrendi fatti di sangue costarono la vita a migliaia e migliaia di soldati, la famosa “Strafexpedition”, la spedizione punitiva che richiese al nostro esercito un immenso sforzo di difesa prima e di attacco poi.
Faustino era un contadino che lavorava a mezzadria nelle terre di un signore e viveva con la famiglia nel Comune di Sesto Fiorentino. Nel 1915 fu chiamano alle armi e, all’età di ventotto anni, partì per il fronte da dove non tornò mai più.
Faustino non sapeva né leggere né scrivere e a casa arrivò solo una foto. La posa era di quelle classiche: sguardo nel vuoto, divisa grigia, gambe fasciate nelle pezze, braccio poggiato su una colonnina. Lo sfondo, chiaramente di cartone, era uno dei classici “trompe l'oeil” presenti in tutti gli studi fotografici. Nonno Faustino, in quella foto, aveva l’aria adulta, non era una ragazzino, 28 anni non sono pochi, e a casa aveva lasciato la moglie e i due figli. Palmira, la moglie, aveva la stessa età mentre i figli, mio zio e mio padre, avevano due e quattro anni.
Nell’estate del 1917 informarono Palmira: Faustino era disperso, uno di quei soldati di cui non si hanno più notizie, di cui nulla è stato ritrovato né sui campi di battaglia né in altri luoghi. Un disperso però non è come un morto, non ha diritto a messe o commemorazioni. Un disperso può sempre tornare, bisogna solo aspettare.
Ma il tempo passava e Palmira e i suoi due figli furono costretti a lasciare la famiglia del marito. Troppe bocche da sfamare e poco lavoro, il cibo per tutti non c’era. Palmira nel 1917 arrivò a Tagliaferro nel comune di San Piero a Sieve dove una cugina che andava a servizio da una famiglia benestante la ospitò i primi tempi. Le trovarono poi una casa e da lì cominciò il suo cammino di miseria e sofferenza senza avere la possibilità di farsi chiamare neanche “vedova di guerra”. Palmira tirò avanti grazie alla generosità di quelli che le stavano vicino. Il mondo era più semplice e le case, per una minestra e un po’ di pane, erano sempre aperte. Mio zio e mio padre da bimbetti iniziarono a fare i garzoni. Mio padre diventò calzolaio, mio zio invece macellaio.
A guerra finita Faustino non era ancora tornato e la sua morte diventò un fatto acquisito. Dal 1924 Palmira cominciò a ricevere la pensione di guerra, due lire che lo Stato le elargirà per il resto della vita.
Nel 1940 mio padre andò in Albania a combattere in un altro assurdo conflitto. Dal 1945, si parlerà solo di quello. La Grande Guerra era ormai molto lontana.
Ricordo la nonna taciturna e, per me, sempre vecchissima che mi portava per mano alla messa domenicale. Palmira divenuta alla fine “la vedova di Tagliaferro”, indossava sempre grembiule e gonna nera in un lutto divenuto ormai la divisa di ogni giorno.
La nonna morì nel 1964 all’età di settantasette anni. Nessuno le chiese mai del marito “un disperso della Grande Guerra” di cui portò con sé gli unici ricordi.
MIO NONNO ERA PAZZO
Racconto di Ennio nato nel 1935
Mio nonno Eugenio era diverso, lo chiamavano “Il matto”. Col sigaro spento in bocca, affacciato alla finestra, lo sguardo perso nel vuoto sedeva tutto il giorno senza fare nulla.
Dicevano che da ragazzo picchiava, alzava le mani e che, per questo, nel 1917 si era arruolato. A casa c’era la fame, bisognava lavorare la terra dieci ora al giorno ma lui non c’era mai. Il fucile in spalla seguiva sempre il fattore a cacciare nella tenuta dei Signori. La sera poi a ubriacarsi in locanda e dopo a fare a botte con tutti. I suoi non lo volevano più. La gente in paese lo odiava, restava solo la guerra.
Alla visita di leva lo dichiararono abile e poco dopo lo spedirono al nord, in Veneto. Di lui si perse ogni traccia. Nel 1918 tornò con la divisa grigio verde, gli scarponi e la fama di essere stato un “ardito”. Non passò da casa ma direttamente dalla locanda. Era cambiato si vedeva, gli occhi fiammanti in perenne lotta contro il mondo si erano spenti. Cercò casa per conto suo senza tornare dai suoi che peraltro non lo cercarono neanche. Incontrò mia nonna una mattina presto. Lei andava alla fonte a prendere l’acqua, lui andava a caccia di frodo e con quello provava a vivere. Si guardarono negli occhi per molte mattine finché lui non la seguì e si ritrovò nell’aia della casa di lei piena di animali e con l’odore buono del pane appena fatto. Si fidanzarono in fretta e si sposarono. Né prima né dopo qualcuno domandò della guerra.La nonna rimase in cinta poco dopo il matrimonio. Il nonno si ubriacava in locanda e la sera tornato a casa la picchiava senza che lei provasse a ribellarsi. Alla nascita di mio padre sembrò calmarsi, ma fu solo per un momento. La nonna cominciò a difenderlo da quelle mani forti che volevano sempre menare qualcuno. In paese arrivò il fascismo e lui si mise con le camicie nere. Loro picchiavano e lui trovò in quell’ambiente lo sfogo per la sua violenza. Ma le cose dovevano cambiare. Un giorno trovò in campagna, un giovane col suo vecchio che girellavano nei campi. “Mi fai schifo” gli gridò l’uomo anziano “Solo i vigliacchi sono tornati dalla guerra, i nostri figli sono morti tutti”. Eugenio li colpì entrambi e quando caddero a terra continuò a pestarli. Il più vecchio si salvò, il ragazzino morì dopo aver sbattuto la testa nel fango. All’epoca i processi, per certe persone, erano molto veloci. Ad un fascista non facevano quasi nulla e, dopo aver derubricato il reato in omicidio colposo, lo lasciarono fuori nel giro di un anno.
Da allora però Eugenio non fu più lo stesso. Non voleva più uscire di casa. Si metteva su una sedia e guardava fuori, nel nulla. La violenza, da sempre dentro di lui, si era diradata, si era spenta nella quotidianità di ogni giorno.Della guerra non aveva mai parlato e nessuno gli aveva chiesto nulla. Gli anni passarono, il nonno invecchiò. Gridava spesso alzando i pugni poi nulla. Quando ero ragazzetto un giorno gli chiesi raccontami della guerra?
Non posso ripeteva più volte finché alla fine disse “Ti colpivano in faccia, alle gambe. L’odore del sangue era dappertutto. Ma il problema non erano i morti ma i vivi. Perché loro si e noi?”. Raccontava quelle poche cose e poi tornava nel silenzio più buio in cui vagava la sua mente impazzita.
Solo una volta mi chiamò mentre stava per morire "Promettimi che non farai mai la guerra, mai per nessun motivo!!" mi disse con il groppo alla gola. “La guerra uccide tutti anche quelli che tornano a casa, ricordalo”.
Mio nonno Eugenio morì nel 1940 poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Per fortuna non vide un'altra inutile strage.